Negli Usa i trasportatori legati al colosso di Bezos hanno proclamato lo sciopero nel periodo più caldo dell’anno. Ma per la ricercatrice di economia politica all’università di Tubinga «chi si mobilita viene punito con i compiti più faticosi e, quando si può, viene licenziato»
In questi giorni in diverse metropoli degli Stati Uniti i guidatori di furgoni di Amazon sono in sciopero. La cosa non creerà troppi danni al gigante di Bezos che sostiene che lo sciopero sia un’operazione di marketing del sindacato dei Teamsters perché i camionisti non sono dipendenti Amazon. La natura del rapporto tra Amazon e chi lavora per la piattaforma è proprio una delle ragioni che causa lo sciopero assieme ai salari e alla rivendicazione di altri diritti.
Sui media invece arriva l’annuncio che Amazon avvierà un nuovo servizio di consegne rapide il che, dice Amazon, contribuirà ulteriormente all’occupazione, avendo il colosso Big Tech creato 1,3 milioni di posti di lavoro. A dire il vero Amazon occupa 100mila persone, gli altri sono liberi professionisti in appalto e qui c’è un paradosso: l’occupazione è tale se la usi per un comunicato stampa e non lo è se organizzi un sindacato e scioperi. Parallelamente, in India, una corte dello Stato dell’Haryana, al confine con Nuova Dehli, dove la disoccupazione è al 22 per cento, ha avviato un procedimento contro il colosso di Bezos per le condizioni di lavoro nei magazzini. Il Guardian riporta invece la notizia che riguarda un gruppo di autisti britannici, dipendenti di fatto, con cui la Big Tech potrebbe patteggiare per 140 milioni di sterline. E a Los Angeles torna sui media la storia per la quale gli autisti Amazon nei periodi di punta – e Natale è “La” punta – devono fare pipì nelle bottiglie di plastica perché non hanno modo di fermarsi e andare al bagno. Bernie Sanders ha consegnato un rapporto al Senato Usa in cui denuncia il trattamento dei lavoratori e la manipolazione dei dati sugli infortuni.
L’economia delle piattaforme è il nostro presente e studiarne l’organizzazione aiuta a capirne i connotati. Ne abbiamo parlato con Sarrah Kassem, ricercatrice tedesca e autrice di Work and alienation in the platform economy (2024) a margine di una conferenza sull’intelligenza artificiale all’Istituto Ciampi della Scuola normale superiore. Nei suoi lavori Kassem descrive i depositi Amazon come fabbriche tayloriste digitalizzate. «Amazon organizza il lavoro nel modo più efficiente possibile per assicurarsi che chi fa un ordine venga soddisfatto in fretta. I magazzini sono divisi in “in arrivo” e “in uscita”, nella prima sezione le merci vengono scansionate. Qui l’efficienza è legata al modo caotico di immagazzinare, i prodotti simili non vanno insieme: un orsacchiotto accanto a un libro o accanto a un cappello, dove c’è spazio. Come mai? Quando nella fase in uscita il lavoratore lo cercherà, individuerà più velocemente un cappello tra altro tipo di merci, non dovrà accertarsi della marca, taglia o del colore giusti. I lavoratori che ho intervistato hanno parlato di 120 articoli da cercare all’ora, ma da altre ricerche sappiamo che altrove sono molti di più. In media si camminano 20 chilometri al giorno e il ritmo è lo stesso per l’intera giornata. La sorveglianza è sia umana che tecnologica incorporata nello scanner manuale in dotazione. La sorveglianza umana può negarti una pausa bagno, mentre lo scanner controlla che il lavoratore tenga il ritmo. Diversi lavoratori mi hanno raccontato di avere incubi ricorrenti su ritmo di lavoro e licenziamenti».
Amazon tende a costruire i suoi grandi magazzini dove la disoccupazione è elevata (come in India). A Bessemer Alabama dove si è votato per introdurre il sindacato il messaggio anti-sindacale era: “Se votate Sì, ci trasferiamo e qui non rimarrà lavoro”.
È una costante che torna spesso, come la vicinanza di aeroporti o autostrade. In alcuni Paesi il turn-out è molto alto e ci si vuole garantire che ci sia manodopera disponibile a sostituire chi lascia. Spesso Amazon offre un salario superiore al minimo e per questo trovare manodopera in zone depresse è facile anche se il lavoro è estenuante.
Parliamo del lavoro digitale, che è in aumento ma invisibile. In cosa è diverso da quello nei magazzini?
Siamo abituati a interagire con i corrieri o i rider, non al lavoro digitale, ma pur non vedendolo questo è in crescita. Mechanical Turk (MTurk) è la piattaforma online e rappresenta il primo strappo nei rapporti di lavoro: le BigTech negli anni ’90 assumevano e avevano sedi, ora i lavoratori possono trovarsi in qualsiasi parte del mondo e non sono dipendenti. Si tratta di lavori micro come taggare foto o di progetti quali campagne mediatiche, scrivere codici, montaggio video. Coloro che offrono lavoro online si trovano soprattutto nel Nord del mondo, mentre coloro che lo svolgono si trovano nel Sud. Quel lavoro alimenta anche gli algoritmi di apprendimento automatico per addestrare l’intelligenza artificiale. Il lavoro è precario e ci viene ricordato costantemente che non si è un dipendente di Amazon e nemmeno del committente. Si viene pagati in base alla mansione, ma solo se questa viene approvata da chi la compra, con il paradosso che chi non approva e non paga può comunque utilizzare il frutto del tuo lavoro. Per alcuni compiti completati da migliaia di lavoratori, l’approvazione o il rifiuto vengono effettuati da un algoritmo. Con chi si comunica in questi casi? In un magazzino c’è il management, mentre con Uber si può essere assunti e licenziati dall’applicazione.
I lavoratori non hanno un’assicurazione, non possono essere rappresentati da sindacati, i diritti del lavoro tradizionali colpiti nella gig economy svaniscono con il lavoro online. Se l’azienda si trova in un’altra parte del mondo e può persino pubblicare compiti su MTurk in forma anonima, a chi ci si rivolge? E come determino il salario minimo? Mi baso sul luogo in cui il lavoratore svolge il lavoro o sulla sede del committente? Amazon parla del dono della flessibilità, ma per chi? Forse per chi fa lavoro di cura e ritaglia momenti per guadagnare qualcosa da casa ma più si dipende dalla gig economy, meno la flessibilità/libertà è un tema. Bisogna essere sempre pienamente operativi nella speranza di ottenere le mansioni più remunerative.
In questi anni abbiamo visto crescere forme di conflitto, vale per i magazzini e gli autisti, ma per il lavoro digitale?
Mi sono sentita spesso ripetere che “Questa è un’azienda transnazionale e dobbiamo organizzarci anche noi oltre le frontiere”. Amazon è molto abile nell’ostacolare il lavoro sindacale. In Germania sono 10 anni che si organizzano senza successo per chiedere la contrattazione collettiva e qui si è verificato il primo sciopero nella storia di Amazon. Ma cosa fare se Amazon usa i magazzini al confine, in Polonia, che si rivolgono al mercato tedesco? Poi le condizioni sono diverse (lavoratore con un visto o cittadino nazionale), le lingue diverse, il che complica anche il coordinamento e l’organizzazione. In un Paese come la Germania non si rischia di perdere il lavoro se si aderisce a un sindacato, ma chi non è tedesco non è detto lo sappia. Chi si mobilita viene punito con i compiti più faticosi e, dove si può, licenziato. Per chi lavora per MTurk è peggio: come si può pensare a uno sciopero globale online quando si lavora da casa? I lavoratori online non sono nemmeno classificati come tali ma si dimostrano solidali tra loro. Su Reddit si trovano elenchi di suggerimenti e consigli su come trovare buone mansioni.
Su TurkOpticon, ad esempio, i lavoratori valutano i clienti, fanno domande e condividono informazioni, avvertendo chi evitare perché non vi pagherà e chi invece lo farà. Ci sono modi meno tradizionali di organizzarsi e noi possiamo imparare da questi modi per capire cosa funziona e come usare questo tipo strumenti.
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