Ma perché Milano ferma i trasporti pubblici e nessuno protesta? La lettera di Natale di un milanese non solo a Sala, ma a tutti: svegliatevi! – MOW

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difficile da pignorare

 


Trasporti che si fermano a Stazione Centrale, Milano della fashion week, Milano che doveva essere la “città più europea d’Italia”: cos’è diventata? Ce lo spiega un milanese con una lettera non solo al capoluogo meneghino, ma a tutti i suoi cittadini, soprattutto quelli che subiscono la trasformazione di Milano senza fare nulla

Dove vi nascondete mezzeseghe, citando Joe Pesci con la mazza da baseball insanguinata in Quei bravi ragazzi. Mi rivolgo a voi, capi di Milano: da mesi stoppate la metro verde alle 9 di sera in Centrale e chi deve proseguire verso i quartieri più periferici deve inumarsi in autobus colmi di non civilizzati che urlano al vivavoce fino a Lambrate. E intanto celebrate le nuove linee dai coloro sbarazzini, nel nome del comfort e dell’inclusività urbana. I lavori alla linea demandateli ai turnisti della notte: pagate agli operai lauti turni notturni che fa anche rima e dissing. Alleggia ancora quel video grottesco del sindaco che cringia coi cummenda del rap sul destino di questa città che da si pavoneggia a unica realtà europea di questo paese a forma di scarpa. Lo so che voi boss vi spostate in elicottero e neanche mi leggerete. Magari genero un movimento peristaltico di cittadini altrettanto esasperati, per la gradassa retorica che alimentate sull’idea che qui si vive e lavora di notte. Ti amo e un po’ di odio Milano, metropoli dalle tre cerchie urbane che più ti allontani dal centro, più diventi paria, numero, elemento statistico non rilevante. In questa ipocrita Calcutta lombarda dai classismi che nessun neologismo in inglese può rendere friendly-qualcosa. Lettera aperta alla città, citando stavolta i Beastie Boys che la dedicavano alla New York del dopo 11 settembre: qui abbiamo avuto un infartato col Cessna che ha preso in pieno il Pirellone. E dunque Muori Milano Muori, citando me stesso, dal titolo di un mio libro preveggente in cui nella città che finisce per ano si imprime l’odore del concime, a pochi giorni dall’inaugurazione dell’Expo. Metafora della livella di Totò, perché l’odore di me*da lo sentono tutti, sia i patrizi di zona Duomo che quelli delle delegazioni che finiscono per ate, da Garbagnate a Colgate. In questa città sempre più elitaria si delinea uno spartiacque antropologico nell’utilizzo dei mezzi trasporta-poveri, da un arguto neologismo di Grazia Sambruna. Mesi di interruzione anche in periodo natalizio, alla vigilia della notte che i killer della semantica esterofila hanno canonizzato come Movida. Neanche nelle più remote provincie italiane sarebbe successo. E è ancora più triste che nessuno protesti o anche solo ne parli, come accade al mattatoio che se in fila con le altre vacche. Quanto è umiliante attendere i sostitutivi della metro nel silenzio aberrante di una pensilina colma di gente stanca che non ringhia e non denuncia, insomma che mai si incazza su giornali, sui social o scrive sui muri del proprio giramento di coglioni. L’amara condizione di vivere oltre le tre sacre circonvallazioni e accettarla con rassegnazione. E quindi assodare di appartenere all’umanità di serie b che non gli si dà la chance di uscire dopo le 9, perché priva di soldi e di gusto, condannati a notti massificate per formiche umane nei palazzoni della DDR, da Milano Est e Milano Ovest, a trangugiare serie tv polacche o spagnole su quella droga per morte a rate che finisce per flix.

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E intanto i più accentrati in questi giorni si superavano nelle loro teorie psicosociali sui disagi del giovani delle banlieue meneghine e per non sentirsi da meno si intendono ovviamente di trapper dai nick posizionanti: Milano ebbasta, va a ‘ffanculo l’autotune generation, non esco, mi ascolto Grateful Dead e Black Flag e, citando il monologo dei va a ‘ffanculo de La 25esima ora, ‘ffanculo anche agli status che commentano X F*cktor e il bisogno di alcuni di fare parte dell’intellighenzia pop culturale di questa città dormitorio. L’altra notte rientravo a piedi freddi dopo l’evento natalizio di MOW, lasciandomi alle spalle la cerchia buona, per raggiungere la fatidica Lambrate e rivedevo i miei 35 anni di insediamento e mutazione qui nella Milano che continua ad accogliere i più giovani col flebile sogno di quei lavori definiti in inglese. Io venni qua per diventare copywriter nelle agenzie di pubblicità dell’era diluviana, quando ancora i social non esistevano, ma venivi pagato e sapevi che la dignità partiva da una cifra con degli zeri. E ora invece i miei nuovi me stessi vengono su per diventare freelance e startapper, retribuiti probabilmente dai genitori, con esigenze sempre più dopaminiche fatte di attese, apericena e stand up del sarcasmo dozzinale che tutti ridono perché tutti attorno ridono. Vietato lamentarsi dell’ologrammilano, perché se no vieni eiettato dalla bolla di coloro che vivono e progettano a Milano: sì, qui ambizione si dice “progetto” e va di moda essere pro-attivi e quel pro sa sempre di prot e aria fetida dalla pancia della bestia. Io sono Milano, tu sei Milano, noi siamo Milano e, citando i Casino Royal, amo la prima, la seconda, la mia terza famiglia: inseguiamo assieme, tutti noi creature, fratelli e sorelle sempre più vicini, protagonisti misconosciuti di questa corsa vana in cui cerchiamo di non scomparire. Nebbia tornata in voga, forse la crisi di cui si parla da quando siamo nati e per risparmiare, con le scusa dell’ecologia, i riscaldamenti si spengono prima. Nuvola di vapore gelido ovattano le passeggiate notturne e torni agli 70 che tanti di noi non hanno vissuto con l’autonomo che punta la pistola in Via De Amicis e poi di botto si generavano gli anni 80 dell’arraffa tutto quello che puoi e della Milano che finiva sulla copertina del Times. Mi rivolgo ora a Babbo Natale, da sempre Zio realizzatore dei desideri: fai che tutti in questa città concentrica possano credere di nuovo a qualcosa che non svanisca dopo la deriva di panettoni e brindisi e che quella metropolitana verde torni a funzionare per intero. C’era una commedia neorealista intitolata Miracolo a Milano: si vedeva una coppia volare su una scopa librandosi sopra le guglie del Duomo e compariva la seguente scritta: “Verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno”.





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