Modello francese, cuore italiano: così l’Albereta si rinnova (ancora)

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Maurizio Bertera

Il patron Vittorio Moretti: «E dopo L’Aurum abbiamo in cantiere altre idee»

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Premessa divertente: troviamo Vittorio Moretti seduto a un tavolo dela Stanza 54, il salotto dell’Albereta, intento a prendere nota su un quaderno di alcuni numeri, verificati personalmente con un metro a nastro. «Erano dieci anni che pensavo di cambiare un arredo che non mi convince e, già che ero qui, ho preso due misure» ci dice, con un sorriso. Anche questo spiega come l’83enne patron di Terra Moretti  holding che dovrebbe chiudere l’anno con 200 milioni di euro di fatturato – ha costruito una grande storia imprenditoriale dove l’Albereta è qualcosa che va al di là della mera struttura di hotellerie. 

Quello di Erbusco è un monumento sempre vivo: quest’anno è nato un fine dining ambizioso quale L’Aurum affidato a un talento quale Alberto Quadrio. Si mangia già molto bene, ci sono le premesse per ambire al top. Ma quello che conta e che fa considerare l’Albereta, per noi, l’hotel bresciano del 2024 è la capacità di non fermarsi mai, di migliorarsi costantemente e di restare un faro per la Franciacorta e l’intera provincia. E, su questo, Moretti è intransigente.




















































Signor Moretti, l’Albereta si è rimessa in gioco ancora una volta.
«Bisogna stare al passo con i tempi e per gli alberghi vale ancora di più. Carmen (la figlia, ndr) è stata straordinaria nella costruzione del sistema creando un posto dove star bene e di classe, facendo la perfetta padrona di casa e mettendo a punto l’esperienza fatta da giovane in grandi alberghi. E ancora oggi è l’anima dell’Albereta. Quanto alla novità de L’Aurum, dopo che Fabio Abbattista, bravo cuoco e ottima persona, ha lasciato al termine di un percorso lungo dieci anni, abbiamo visto in Quadrio il profilo giusto per le nostre ambizioni».

Diciamo l’agognata stella Michelin, che manca dai tempi di Marchesi quando nel 2008 le restituì in polemica con la Guida Rossa…
«Esatto: a un luogo come l’Albereta non può mancare una stella. Penso che quel gesto abbia condizionato la Michelin verso il nostro ristorante interno anche dopo il 2013, anno in cui Marchesi tornò a Milano».

Molti reputano miracoloso che due personaggi tosti come lei e il più grande cuoco italiano di sempre abbiate lavorato insieme per vent’anni.
«È stato un grande amico, un fenomeno e un artista nel suo campo. Arrivò qui grazie a un incontro nel suo ristorante a Milano dove cenavo con Gianni Brera: cercavo un cuoco per il fine dining dell’Albereta e si offrì. Ha cambiato la storia culinaria di questo territorio e noi siamo stati i primi ad aprire la frontiera degli hotel che hanno un grande ristorante al loro interno. Oggi è naturale».

Si dice che la nascita dell’Albereta si deve ai suoi viaggi in Francia.
«Vero: nei primi anni Novanta andavo con la famiglia nei loro Relais & Chateaux e trovavo un approccio diverso al nostro, sull’ospitalità non avevano rivali e pure ora sono straordinari. Ci sono posti come la Maison Guérard a Eugenie Les Bains che sono perfetti, dalle divise delle hostess alla cucina vegetariana. Ho deciso di crearne uno qui cercando di toccare quel livello di qualità. E anno dopo anno siamo migliorati tantissimo, penso non dobbiamo più copiare da nessuno».

Al di là dell’investimento importante, non fu facile all’inizio.
«Ma ero tranquillo, perché quando faccio le cose per gioco mi vengono bene. Ho aperto il primo golf club in Franciacorta nel 1984 mentre sette anni prima mi ero cimentato nel vino, creando Bellavista. Questo territorio, in pieno sviluppo, si meritava un Relais & Chateaux anche se praticamente non esisteva una cultura dell’ospitalità: quando nel 1993 aprimmo le prime nove camere, il personale ce lo formammo in casa con ragazzi e ragazze del posto. Con l’impegno diventarono bravi, in questo senso meglio quel tempo rispetto a oggi dove in ogni settore si fatica a trovare delle persone con la passione per il lavoro».

Dieci anni dopo arrivava Henri Chenot completando l’offerta dell’Albereta con la spa. Come è nata l’operazione?
«Dalla frequentazione di mia moglie e mia figlia Francesca delle sue spa in Alto Adige: nel 2003, con l’aumento delle camere, Carmen mi propone di realizzarne una, di tipo medicale, e invitò Chenot in Albereta. Si trovò benissimo e mi disse “Vittorio, sai che mi piace l’idea di venire qui?”. Era un simpatico giramondo che aveva l’attitudine a capire le persone solo guardandole».

C’è la sensazione che la Franciacorta, ma anche l’Italia in generale, abbiano fatto grandi progressi nella ristorazione ma siano rimasti un passo indietro nell’hotellerie. Cosa ne pensa?

«Ha ragione. Ma si spiega con il fatto che la seconda richiede investimenti molto pesanti rispetto alla prima e resta un’impresa meno semplice. Costruirli rende poco o non rende proprio, gestirli bene sì. Detto questo, abbiamo un programma importante sul tema che sveleremo a breve».

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Trentun’anni dopo l’apertura, cosa la rende orgoglioso dell’Albereta?
«Che i clienti mi dicano: la vostra è una casa dove ci si sente davvero in famiglia. Forse perché oggi la seconda è un po’ scaduta».

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