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Un paio di anni fa, Italo Zannier (Spilimbergo, 1932) percorreva le tre ore e mezza di sentiero per arrivare al borgo ormai abbandonato di Palcoda, in Friuli-Venezia Giulia, documentando la salita e scrivendone per la casa editrice Quinlan.
Un’impresa mossa dal desiderio di tenere traccia non solo di una realtà scomparsa – la vita che animava il borgo fino all’epoca della Resistenza partigiana – e di cui non rimane che qualche rudere invaso ormai dalla vegetazione, ma anche della propria storia personale, che vede Italo bambino crescere in quei luoghi. Per fare questo, Zannier continua a intendere il mezzo fotografico come l’unica vera via per scrivere il mondo, salvare le sue regioni destinate all’oblio, trovare dentro il suo spazio il nostro posto.
Oggi, Zannier continua la propria inesausta attività editoriale – che conta più di seicento titoli tra saggi e interventi critici – pubblicando ancora: il desiderio di portare alla luce nuove immagini convive con la volontà di dare una traccia ai ricordi, lasciando al flusso dei collegamenti liberi il compito di riassumere in sempre troppo poche pagine una carriera di oltre sette decenni.
Senza parole esce per Contrasto in un formato snello, esile, un fotolibro senza didascalie o trama; capiamo essere questi che vediamo i soggetti che più chiamano lo sguardo di uno dei maestri del neorealismo fotografico degli anni Cinquanta. La realtà è diventata, ora, non storia da documentare, bensì un gioco eterogeneo, colorato, qualcosa in cui divertirsi a perdere la propria ombra. Un ritorno all’afasia della visione, a un mondo da cui prendere ogni forma, variazione, contrappunto.
L’immaginario multiforme di un uomo che ha dedicato la propria vita non solo a diffondere e studiare, ma a conferire la meritata dignità alla fotografia, ingiustamente considerata per molto tempo “ancella delle arti”, si articola sui tratti più sfuggenti di ciò che lo circonda, sulle intuizioni assunte in autonomia dagli oggetti che incontra. “Senza parole”, perché per guardare il mondo non servono, né per comprenderlo, per rimanerne almeno suggestionati, intimamente sconvolti.
Siamo dentro un’opera di poesia concreta, visiva in misura globale, dal momento in cui ogni dettaglio presente nel libro va colto come immagine; anche le scritte che compaiono uscite dal pugno di Zannier, le cancellature, gli sbaffi eccessivi delle parentesi, il maiuscolo e il minuscolo. Come ancora il suo stemma, il blasone che ne porta il nome e l’anno che qua e là compare, è immagine; nulla che vada letto, bensì assorbito senza l’uso attivo della coscienza, senza le pretese che il raziocinio impone per stabilire l’ordine fittizio delle sequenze che viviamo. “Senza parole”, perché il mondo può parlare da solo.
Nel piccolo inserto posto a metà del percorso visivo e a piena pagina in cui Zannier ci porta, affiorano come dall’acqua le immagini che Italo realizzò nel suo periodo neorealista, durante il quale documentò il Friuli-Venezia Giulia nell’immediato dopoguerra.
Un tuffo momentaneo in un’Italia che ormai a malapena riconosciamo; il ricordo si fa “baluginante” come anche scrive Zannier nella manciata di pagine in cui lascia spazio al racconto scritto; le case e le donne sembrano uscite tutte, in tutte le loro parti, dal legno e dalla pietra sopravvissuta. I calcagni sollevati sugli zoccoli, i soffitti di quella povertà – quasi magica ai nostri occhi; lo sguardo presentissimo del bambino seduto sulle scale.
È un lampo, niente più: la storia dell’immagine fotogenica continua a espandersi, prendendo la realtà da un altro verso, come dicevamo, quello del gioco, della sorpresa che nasce abbandonando il filo logico della storia. Sempre per Doppiozero avevamo chiacchierato un po’ con Italo Zannier in merito al suo libro su Palcoda, di cui abbiamo accennato. In quell’occasione, vado a memoria, ci raccontò che non si trovava più tanto d’accordo con l’idea che aveva sempre sostenuto, ovvero che la fotografia debba e possa in primo luogo unicamente “documentare”: “Forse il verbo giusto è “segnalare.’”, aveva detto all’incirca. E così cambia tutto.
La fotografia, che non è mai specchio fedele della realtà, più che tenere traccia e fare ordine nel flusso degli eventi, indica qualcosa che va visto: quattro lune diverse nell’unica pagina che le ospita, un germoglio, il bastone da passeggio, lo sguardo ricambiato di un volatile. Non più testimonianze, ma motivi per la visione, per continuare ad attivarla.
Le parole compaiono come altri lampi subitanei nelle Cronache di un fotografo impenitente. Un’autobiografia che Italo Zannier dà alle stampe per La nave di Teseo, nella collana I Delfini. Potrebbe essere definito il negativo della pubblicazione di Contrasto: in questo caso è il racconto verbale a prevalere, mentre comunque compare un inserto a metà percorso con alcune immagini della sua ultima produzione.
È naturalmente un’impresa impossibile condensare in poco più di un centinaio di pagine il racconto di una qualsiasi vita, tanto più se nel corso degli anni si è diventati uno dei maggiori riferimenti teorici, in Italia e all’estero, della fotografia, della sua storia e del suo pensiero.
“Mi sovvengono alcuni momenti indimenticabili, al di là di quelli esistenziali e famigliari, eventi memorabili non soltanto per me ma per la microstoria, che è la più segreta, ma rivelatrice, anche della simbolica sociologia della fotografia.” Così Zannier comincia il capitolo dedicato alle “Metamorfosi italiane”, rassegna organizzata da Germano Celant nel 1994 al Guggenheim di New York sull’arte italiana, in occasione della quale a Zannier fu affidato il capitolo sulla fotografia.
Non solo la storia dei propri successi, ma gli incontri, la meraviglia di poter collaborare e confrontarsi con colleghi di alta fama, poter segnare davvero quei punti fermi necessari perché la fotografia guadagnasse terreno nella sua divulgazione e insegnamento in Italia, poter tracciare, davvero, una linea guida perché un’arte rivoluzionaria avesse finalmente voce e struttura.
Fu Italo Zannier a inaugurare la prima cattedra universitaria in fotografia, ottenendo sostegni più che autorevoli – come Umberto Eco al Dams di Bologna – e cadendo, contemporaneamente, nell’indifferenza di altri colleghi, ostinati a considerare superflua e marginale questa materia.
Sono ricordi pulviscolari: volti, eventi, dettagli di conversazioni avute. Persona attratta visceralmente dal mondo dell’immagine, pittore abile già da ragazzo, quasi cineasta se non fosse stato per un difetto tecnico dell’attrezzatura, infine fotografo innamorato.
La fotografia è stata croce e battaglia, oltre che passione, per Italo Zannier, che a novantadue anni continua i suoi studi, amplia la sua già vastissima e preziosa biblioteca, scatta. “La fotografia come destino” è un altro capitolo del libro, e indica appunto la fatalità definitiva con cui le cose accadono e prendono il sopravvento, scrivendo per noi la nostra storia, portandola là dove è giusto che arrivi. E Zannier è arrivato lontano, non solo per successi personali, ma anche innervandosi nelle carriere dei futuri pilastri della fotografia italiana. Nelle sue aule piene si sono formati infatti fotografi che avrebbero segnato la storia della fotografia – uno tra molti Guido Guidi – ulteriore conferma dell’efficacia dell’insegnamento accademico di questa disciplina.
Un esempio concreto di quanto la fotografia sia ancora una presenza vacillante nel mondo dell’istruzione è la sua assenza dalla lista degli insegnamenti nella Facoltà di Lettere (almeno della mia città), sebbene siano presenti, come è giusto, la storia dell’arte, del cinema, della televisione, della radio, della musica, del teatro, dell’informatica.
La fotografia è ancora uno degli ambiti del sapere meno strutturati sul piano dell’insegnamento, sebbene sia comunque più presente nelle università e nelle accademie: il rischio di banalizzare e ridurre alla mera cronologia è dietro l’angolo, mentre dentro la fotografia convivono paradossi vivi, articolata com’è sull’aporia dell’evidenza senza verità, dell’immagine reale senza informazione. Zannier questo continua a ribadirlo: quando rivolge “un invito accorato all’apprendimento dell’immagine, non tanto nel suo soggetto iconografico, ma nella sua dimensione estetica […]” o quando indica una direzione necessaria: “Ai ragazzi andrebbe fatto capire che le immagini sul cellulare, o viste in un libro o giornale, arrivano come messaggio […] però non sono informative. Ma la fotografia è un linguaggio specifico, persino più misterioso e ambiguo di altri più conosciuti […]. Ma è lì, in quelle immagini, trasparenti come nel cellulare o nel computer, ossia nelle “fotofanie”, che c’è il pericolo maggiore. Nel credere, cioè, che quelle “apparizioni” siano la realtà, anzi la verità.”
Non è verità l’ago che vediamo in Senza parole, non ci dice niente su cosa sia il significato materiale di un ago, riproposto anche in scala diversa dal reale. L’ago è la rivelazione di una forma che fino al momento prima era rimasta anonima, e vive dentro i confini di una verità nuova, non informativa, ma epifanica; il riverbero delle luci, il profilo scuro di una casa. Tutto, tutto ciò che vediamo e fotografiamo, ci suggerisce ancora Zannier, è un enorme punto interrogativo, mai un’affermazione lapidaria. Un punto interrogativo neanche posto alla fine della grande frase-libro “senza parole” (il confuso ossimoro di quando il mondo si articola in una grammatica soltanto visuale), ma appena dopo qualche pagina: la fotografia, d’altronde, non fa che smontare e rimontare a piacimento il discorso delle forme, ponendo le domande quando desidera e lasciando aperti tutti gli altri periodi.
Italo Zannier non smette di invitarci ad assecondarla: noi proviamo a farlo.
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Carola Allemandi | Palcoda: un’Intervista Italo Zannie
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