senza una forma di riparazione non si ha indietro ciò che è stato leso

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Se si crede che infliggere pene sia giustizia, anziché necessità sociale nei limiti dell’utilità collettiva e del senso di umanità, ci si può innamorare di questi riti. Ma senza una forma di riparazione nessuna pena ha mai restituito un bene che sia stato leso

Proporre un movimento Contro ogni innamoramento punitivo è nello spirito del tempo? Parrebbe di no, perché come osservatori registriamo costanti flussi di opinione orientati al punire. Il modo di sentire, di reagire e di vivere i conflitti sociali e le delusioni subìte dai comportamenti illeciti o criminosi riguarda la famiglia, la scuola, l’ambiente di lavoro, i rapporti fra le persone, la società civile e politica, lo Stato e il diritto nazionale e internazionale. Riguarda tutti e tutto. Ridefinire la percezione e la reazione a misfatti e delitti ha valore educativo, filosofico, politico, giuridico.

Solo l’ostracismo all’insegnamento della Costituzione e del diritto privato e pubblico come base formativa, grandi assenti dai licei e da troppe scuole, ha perpetrato l’ignoranza collettiva che assegna primati miopi ad altre materie classiche e scientifiche, lasciando il diritto agli avvocati, ai magistrati e ai giornali. Ma tant’è. Perché la Costituzione e la storia del diritto, anche di quello punitivo, non fanno parte di storia e filosofia e comunque sono ritenuti meno formativi della chimica? Non si tratta di contrastare la passione punitiva della società – istinto ineliminabile – ma di rifondarla dalle basi. Il modello di Beccaria, di una risposta penale rapida, ma anche temperata e mite, è contraddittorio. Più è immediata quella risposta e più somiglia a qualcosa che supera il taglione (occhio per occhio), perché aggiunge un male in eccesso a quello commesso, dovendo intimidire la generalità dei consociati e soddisfare il bisogno di rivolta contro il delitto.

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La stessa proporzione è già taglione, retribuzione, simmetria, cioè un raddoppio del male commesso, chiamato da millenni giustizia se eseguito dallo Stato. Perché se è pena inflitta e non mero risarcimento o riparazione, che restano davvero più misurati nel quantum e aggiungono in entità quasi aritmetica un bene al male (si ripeta come giaculatoria: aggiungono un bene al male), la pena aggiunge un male al male. Un male che si somma al bene eventuale del risarcimento o della riparazione. Se poi quel male è “proporzionato” e simmetrico, è davvero un raddoppio del male così sicuro da superare ogni altra logica risarcitoria che resta una eventualità. Il male è sicuro, è “legge” (una legge sociale che ripete la logica predittiva delle leggi fisiche), il bene no, è scelta privata. Fuori dello Stato poi, la risposta simmetrica diventa facilmente sproporzionata e si trasforma in vendetta. La passione per la vendetta è travolgente e trova un suo limite solo nel modello punitivo pubblico, che tuttavia perpetua il ciclo violento. Nessuno e niente come le rappresentazioni della tragedia greca ha saputo riprodurre questo ciclo di violenze infinito.
Nell’Antico Testamento, invece, si presenta spesso quel ciclo come giustizia divina, ma alla fine la si legittima. “A me appartiene la vendetta e la retribuzione”.

Pensavamo di essercene liberati con la scomparsa delle divinità dalla narrazione collettiva degli eventi storici (è ancora presente in Manzoni: nelle celebrazioni collettive del suo centocinquantesimo anno dalla morte pochi lo hanno ricordato), ma l’abbiamo solo sublimata: la politica esprime maggioranze che sono una nuova religione civile e la pena resta un suo strumento di governo (“a me appartiene la vendetta e la retribuzione”), quasi una religione di massa essa stessa. Questa è la logica punitiva. Nei rapporti di coppia o interpersonali, in famiglia, nella società, come per gli Stati, la giustizia sostituisce il perdono e l’amore, e pure la prevenzione e il controllo. Non si tratta allora di limitare semplicemente la passione punitiva del nostro tempo, ma di qualcosa di più universale, che abbiamo bisogno di comprendere, perché l’informazione e dunque il giornalismo, i media e i social stanno enfatizzando il bisogno collettivo di vendetta pubblica oltre ogni limite.

Parliamo della vendetta pubblica, non di quella privata. Perché la vendetta pubblica, sublimata in giustizia, quando c’è, è la risposta a quella privata. Ma deve esserci affinché la vendetta privata non ritorni, e ne prenda il posto. Questo discorso, un po’ critico, è davvero quasi scontato. Ma non del tutto, se svela l’orribile equazione fra risposta simmetrica e giustizia (una equazione millenaria!), chiamandola invece raddoppio del male. Vorremmo invece fare comprendere, quasi un canto di Natale, il limite antropologico dell’innamoramento punitivo. Una volta che si pensi che infliggere pene sia giustizia, anziché necessità sociale nei limiti dell’utilità collettiva e del senso di umanità, ci si può innamorare di questi riti. Accade spessissimo pressoché a tutti, perché è nell’antropologia che si risponda al male con azione uguale e contraria, e attorno alla sua mitizzazione si sono celebrate le rappresentazioni più varie nella storia. Noi, invece, consapevoli come mai prima dei meccanismi collettivi di vendetta che social e media riflettono o sostengono, abbiamo il privilegio di capire quello che forse per la prima volta storicamente appare con tanta chiarezza. Mai una pena ha restituito un bene che sia stato leso, a meno che si tratti di, o si accompagni a, una forma di riparazione.

Se dunque si desidera il bene sociale, occorre operare per ripristinare, riconciliare, restituire, ricostruire, risarcire, ricomporre interessi, valori, beni, rapporti. Anche se ci sono crimini, o semplicemente atti, che non si possono perdonare, o che non si possono riparare in senso fisico o economico, una persona non si identifica mai con quello che ha fatto, non azzera il suo valore in quelle condotte. Per questo motivo non ammettiamo la pena di morte, che suppone l’annullamento del valore del condannato nel suo gesto, o nella sua non-vita. Una persona può sempre agire per ricostruire rapporti, quando non siano possibili risarcimenti, restituzioni o riparazioni, mettendo in gioco la propria vita nel suo futuro, anziché annullarla nel suo passato. Ecco: l’innamoramento punitivo ha sempre cercato di annullare le persone nel loro passato, nell’atto, nel fatto che si vuole compensare o retribuire. Salvo diminuire, attenuare, condonare le pene dopo la loro inflizione almeno parziale.

In questa logica è avvolto il destino dell’innamoramento punitivo, che chiama giustizia il male aggiunto, anche se non ci sia nessuna forma positiva di bene aggiunto. Dato che il delitto non può e non deve pagare, si chiama bene il male della privazione di libertà, e altri diritti. Occorre comprendere la perversione di questa antropologia antica, che giustifica la punizione del singolo in vista della prevenzione di illeciti futuri, del consolidamento della coscienza collettiva e della fiducia nell’ordinamento che si autotutela contro i suoi trasgressori. Ogni rieducazione ed emenda sono eventuali in questo meccanismo millenario. Ma è solo la necessità a giustificare il meccanismo di cui non ci si può innamorare come non si può farlo con una legge della fisica. Fermare il delitto, del resto, non appartiene alla pena retrospettiva normale, minacciata per tutti, ma alle misure cautelari, alla polizia preventiva, al controllo sociale, e alla selezione dei soggetti veramente programmati al crimine, per neutralizzarli. Il bene da costruire appartiene invece al post-fatto, a ogni forma di solidarietà e ricostruzione sopravvenuta.

La sensazione drammatica di ogni autore di reato di non potere più “tornare indietro” dovrebbe quindi essere sostituita da programmi che, fermo un residuo di pena compensativa ritenuto insuperabile dalla società (ma ci sono forme molto diverse di riduzione, trasformazione e anche di degradazione delle pene inflitte verso programmi positivi di intervento, di pene prescrittive orientate al futuro), indirizzi al bene la sanzione penale. Tutto ciò costituisce la base per ripensare e riprogrammare ogni forma di innamoramento punitivo: in famiglia come nella scuola, nella società e nei tribunali. È questo un canto di Natale. Perché Natale significa che la storia non è più come prima, non è un ciclico eterno ritorno, ma viene divisa tra un prima e un dopo l’evento salvifico, al punto di condizionare lo stesso calendario universale. Il Natale delle passioni punitive significa che niente è uguale a prima se si attribuisce alle punizioni lo scopo di ricostruire beni, interessi, rapporti diversi dalla mera finalizzazione della pena sull’individuo.

Nulla è più concentrato sulla sola persona di un colpevole, perché c’è una dimensione sociale del punire che, in famiglia, nel lavoro, come nei tribunali, spegne le nostre passioni ossessionate dalla colpa personale e le riconverte in forme di responsabilità che attuano programmi, elidono le conseguenze dell’illecito, sono costruite su una misura dei danni e non unicamente su quella delle colpe. Come il diritto civile risarcisce e restituisce, anche quello punitivo promette alle vittime riparazione e risarcimento e alla società ricostruzione di rapporti quali parti essenziali del rapporto punitivo con lo Stato e la persona offesa. La socializzazione delle conseguenze allontana l’attenzione dal rimprovero individuale, il quale è solo una parte della misura della sanzione. Siamo finalmente liberi dal passato delle sanzioni assillate dalla misura del male interiore, della personalità, o di una colpevolezza sociale che deve esprimere il singolo nel fatto commesso.

Quanti fatti commettiamo che non sono noi stessi? Dobbiamo dirlo ai figli come agli imputati. Che si puniscano i fatti senza rimproverare sempre le persone che non si conoscono, e devono rappresentare un valore permanente, mentre sarà assai più agevole conoscerle dopo che avranno agìto per recuperare, restaurare, riconciliare. È Natale quando la passione punitiva diventa impegno sociale che supera il passato e il concentrarsi sulle colpe come soluzione del problema, come soluzione finale della giustizia. Non è questo un Dio con noi? Una speranza di cieli e terre nuove? Tutte le categorie del punire dovranno allora essere ripensate e riviste.

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