La nuova grande emigrazione che mette a rischio il futuro dell’Italia

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«Ho deciso di ragionare su questi temi perché li ho vissuti sulla mia pelle. L’ho fatto con curiosità e attenzione, ma spero senza la presunzione di avere una solo verità. Quello che voglio trasmettere, però, è un senso di urgenza». Così Alessandro Foti, ricercatore in immunologia al Max Planck Institute di Berlino dopo avere studiato Biologia alla Sapienza, spiega ai lettori che cosa l’ha spinto a scrivere Stai fuori! Come il Belpaese spinge i giovani ad andare via (Edizioni Dedalo, 216 pp., 17 euro), da pochi mesi in libreria.

La strada per andare a lavorare all’estero Foti la conosce perché l’ha percorsa: come gli oltre un milione di Italiani che sono emigrati all’estero negli ultimi dieci anni (l’equivalente dell’intera città di Napoli, terza città d’Italia, fa notare l’autore). La mobilità internazionale è un tratto distintivo dell’epoca in cui viviamo, si potrebbe obiettare: i giovani contemporanei sono sempre più internazionali, mobili e curiosi verso altre culture. Ma attenzione. Questo vale quando la mobilità è una scelta. Non quando è un obbligo, per mancanza di alternative, e quando le giovani generazioni vanno via e non ritornano più.

E poi, la questione più grave, dice ancora Foti, non è solo che i nostri giovani vanno altrove: è anche e soprattutto che da noi non ne arrivano dagli altri Paesi europei. «Nonostante i luoghi comuni sul seducente fascino del Belpaese, la realtà ci dice il contrario: i giovani italiani vanno in massa in Inghilterra, Germania e Francia, ma gli inglesi, i tedeschi e i francesi non ci pensano neanche a venire da noi, se non per fare le vacanze e mangiare la pasta o il gelato». Un tema, denuncia Foti, non all’ordine del giorno del dibattito pubblico. «Dai media generalisti e dalla propaganda politica è stato veicolato il messaggio dell’invasione degli immigrati sui barconi. Beh, si rimane a bocca aperta leggendo un dato interessante: in Italia dal 2018 al 2021 sono sbarcati 131.210 immigrati e negli stessi quattro anni hanno spostato la residenza all’estero 497.240 italiani (Fondazione Migrantes, 2022). Eppure la politica, il dibattito pubblico e direi buona parte della società italiana si è focalizzata solo sugli immigrati arrivati sui barconi, ignorando il fatto che la gente va via, più che venire in Italia».

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Ma quali sono i motivi che spingono tanti giovani altrove? Il fattore push critico è stata la crisi del 2008-2009, che ha portato a un boom di nuovi emigrati italiani negli anni seguenti. «Nella realtà, complessivamente, gli italiani vedono ormai da anni un peggioramento delle proprie condizioni salariali e di potere d’acquisto, come dimostrano i principali indicatori sul tema. In particolare negli ultimi vent’anni l’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non essere cresciuto, a non aver aumentato i salari e a vedere il potere d’acquisto dei propri cittadini in costante diminuzione». Inoltre, segnala ancora l’autore, siamo uno dei Paesi europei con il mercato del lavoro giovanile più fragile e un livello di occupazione tra le giovani generazioni molto basso. Non basta: i neolaureati italiani hanno più difficoltà a trovare un lavoro dignitoso: l’Italia è addirittura ultima in Europa per livello occupazionale dei giovani di 20-34 anni laureati (fino a tre anni dalla laurea)».

Lo squilibrio dei cervelli

Se l’Italia ha visto nella sua storia molte altre emigrazioni, Foti sottolinea come una caratteristica di questa vera e propria nuova ondata emigratoria sia la presenza di un alto numero di giovani scolarizzati che lascia il Paese. «La vera differenza rispetto al passato è pertanto che adesso esportiamo giovani istruiti, spesso con alta formazione, scartati, se non maltrattati, dal mercato del lavoro italiano». Per quanto riguarda in particolare i laureati tra i 25-39 anni, Foti fa notare tra l’altro che in un solo anno (2021) ne abbiamo perso circa l’1,3%: e che il numero di laureati che espatriano, in rapporto al totale di chi emigra, va aumentando ogni anno. Fenomeno grave, se si pensa che l’Italia già forma pochi laureati (siamo 28esimi su 30 in Europa per numero di laureati) e pochissimi ne vengono in Italia da altri Paesi. È quindi, più che una fuga, uno squilibrio dei cervelli: vanno e non tornano e non ne arrivano di nuovi.

Un problema grave, come spiega Foti nel secondo capitolo, perché la perdita di giovani formati ha notevoli effetti negativi sulle regioni di partenza: incide negativamente sulla capacità di innovazione, sulla produttività, sulla crescita economica, fino a generare il declino sociale e culturale del territorio, creando un circolo vizioso. In particolare, nel saggio è sottolineata l’importanza del fattore istruzione, della formazione e delle idee come motore trainante della knowledge economy, vista come l’unica prospettiva futura per le economie occidentali post-industriali.

Da questo punto di vista, Foti mette in fila una serie di dati decisamente sconfortanti per il nostro paese: a dispetto dei dati OCSE, che dicono che i Paesi con alto numero di lavoratori con formazione terziaria sono anche quelli con bassa disoccupazione e maggiore produttività, l’Italia si segnala in Europa non solo per basso numero di laureati, ma anche di lavoratori laureati (siamo terzultimi su 27), di laureati stranieri immigrati in Italia (siamo ultimi in Europa), mentre il livello di NEET, giovani che non lavorano, non studiano e non fanno formazione è tra i più alti al mondo. Come se non bastasse, l’Italia è secondo tra i Paesi OCSE per analfabetismo funzionale e ultima per studenti stranieri assorbiti nel mondo del lavoro. Come mai tanto grigiore?

Si investe troppo poco in istruzione e ricerca

Una spiegazione di tanti pessimi primati, spiega Foti, potrebbe essere il fatto «che l’istruzione sembra non avere un ruolo primario all’interno degli investimenti dello Stato». E infatti l’Italia è agli ultimi posti in Europa (quintultima) anche per investimenti in istruzione.

Un’attenzione particolare, comprensibilmente, è rivolta dall’autore al mondo dell’Università e della ricerca, quello che soffre di più del fenomeno dei cervelli in fuga. Basse retribuzioni, pochi contratti a tempo indeterminato, un sistema percepito come poco trasparente e non basato sul merito. «La riduzione dei finanziamenti pubblici nell’ultimo decennio ha avuto un forte impatto sulle risorse umane; tra il 2009 e il 2016 nelle università italiane il numero di professori ordinari, associati e ricercatori italiani è diminuito di 12.000 unità, una riduzione del 20% […]. Di conseguenza, il numero di ricercatori altamente qualificati che si trasferiscono fuori dall’Italia è notevolmente aumentato […] Un evidente segnale del fenomeno sono i risultati dei finanziamenti ERC: […] circa due terzi dei ricercatori italiani che hanno vinto gli ambìti ERC consolidator grants lavora in istituzioni straniere – con bassissime possibilità di rientro in Italia – e porta questi soldi nei già ricchi istituti esteri. Quindi, 36 italiani vincono gli ERC, ma solo 12 grants arrivano a istituzioni italiane. Invece, ad esempio, 20 francesi vincono gli ERC, ma le istituzioni francesi ne ricevono 22 […] L’Italia è l’unico dei grandi Paesi europei ad avere uno squilibrio così forte – del quale neanche si parla – determinato dal progressivo smantellamento delle università e dell’accademia italiana». La crisi dell’accademia italiana deriva, secondo Foti, da due grandi temi: la mancanza cronica di finanziamenti e la mentalità conservatrice che attanaglia buona parte della classe dirigente accademica.

Come affrontare il problema?

Foti passa in rassegna nel terzo capitolo le proposte normative volte a rimediare al problema dei “cervelli in fuga”, che hanno finito per formare «una selva di leggi, norme e modifiche nella quale è facile perdersi». Il punto, però, sostiene Foti, è che non è con normative, spesso basate su sgravi fiscali, mirate alla nicchia dei neoemigrati che si può risolvere il problema, ma migliorando le condizioni generali di vita e di lavoro, delle quali usufruirebbero tutti gli italiani.

Una serie di progetti italiani e stranieri che hanno affrontato il problema sono passati in rassegna nei capitoli tre e quattro, che precede quelle che l’autore (al capitolo cinque) definisce una serie di “proposte e provocazioni”. Per quanto riguarda in particolare il mondo accademico, l’allineamento degli investimenti in istruzione, formazione e ricerca agli altri Paesi sviluppati (la quota che l’Italia dedica all’istruzione universitaria corrisponde allo 0,9% del PIL, contro una media OCSE dell’1,45%, ovvero all’Università arrivano circa 10 miliardi di euro in meno) secondo Foti deve andare di pari passo con una ristrutturazione del sistema accademico, che lo renda più meritocratico, trasparente e competitivo. Tra le proposte, l’abolizione dei concorsi, accompagnata da una valutazione della gestione degli istituti da parte della dirigenza universitaria, e la promozione della mobilità nazionale e internazionale, ispirata anche al sistema delle università tedesche che Foti conosce in prima persona. Certo, ci vorrebbe soprattutto una profonda riforma culturale che riguardi l’intero mercato del lavoro. Nel capitolo conclusivo l’autore vola più alto: «Servirebbe una visione più etica del lavoro, meno orientata allo sfruttamento e al mero profitto e più focalizzata sulla valorizzazione delle persone: la risorsa più importante di tutte! Migliori condizioni lavorative in Italia coincideranno con minori espatri e maggiore attrattività nei confronti dei nostri vicini europei.»

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Una conversazione con Ilaria Capua, al capitolo sesto, presenta alcune proposte e idee della scienziata, basate anche sulle sue esperienze personali.

Concludendo con le parole dell’autore: questo saggio molto documentato, chiaro e leggibile, ricco di dati e in grado di spaziare attraverso molti temi (molti più di quelli che possono entrare in una recensione) è «un invito a ragionare, a riflettere su cosa vogliamo diventare, sulla responsabilità, sulla fiducia, sull’attivismo».

Dedicato “a tutti quelli a cui non stanno bene le cose come sono”, sposa nella conclusione l’invito ai giovani di Goffredo Fofi: “Resistere, studiare, fare rete e rompere i coglioni”. Lo facciamo anche nostro, nella speranza che serva.





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