«Io, perseguitata in Iran come Sala. Nelle carceri italiane ero sola»

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Aggiornamento: Cecilia Sala è stata liberata. Lo ha annunciato alle 11.30 circa con una nota palazzo Chigi. 

Fare informazione in Iran, lottare per i diritti umani o per i diritti delle donne, protestare contro le leggi della Repubblica islamica è un rischio, che a molti iraniani e iraniane può costare la vita. Sono almeno 901 le persone giustiziate dal regime nel 2024, in base ai dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.

Un numero in crescita «profondamente preoccupante», ha detto l’alto commissario Volker Tusk, che ha esortato le autorità a fermare tutte le ulteriori esecuzioni.

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«Molti compagni sono stati giustiziati e il numero dei detenuti è aumentato in modo sconvolgente», spiega Maysoon Majidi, attivista curdo-iraniana. Perseguitata per la sua attività politica, è fuggita dall’Iran nel 2019 ed è arrivata nel 2023 da richiedente asilo in Italia, dove è stata arrestata con l’accusa di aver aiutato chi ha guidato la barca. Il processo non si è ancora concluso, ma dopo dieci mesi di detenzione i giudici hanno disposto la sua liberazione.

«Il carcere simbolo della repressione politica» è quello di Evin, a Teheran, dove dal 19 dicembre è detenuta la giornalista italiana Cecilia Sala, spiega Majidi. Molte delle persone detenute sono legate alle proteste del 2022, nate dopo la morte di Mahsa Amini, l’attivista curdo-iraniana arrestata dalla polizia morale per non aver indossato correttamente il velo e morta in detenzione.

Lei ha raccontato quelle proteste su media indipendenti. Cosa ha subito per la sua attività di denuncia?

Nel 2017, durante le manifestazioni per il referendum del Kurdistan, a Sanandaj, facevo attività giornalistica e in quel momento sono stata picchiata dalle unità speciali. I segni sono ancora visibili. Sono stata portata in ospedale e ho trascorso un periodo in detenzione temporanea. Mi hanno sequestrato il materiale fotografico e sono stata convocata più volte dalla sicurezza dell’università.

Ero sotto processo per le attività a favore della libertà di espressione e dei diritti umani. Nel 2019, prima che riuscissero ad arrestarmi, sono fuggita dal mio paese.

Cosa significa essere detenuti in Iran?

In tutto il mondo carcere significa privazione della libertà, significa minacce, pressioni psicologiche. Sono le leggi e il modo in cui vengono applicate a differenziare le prigioni, da un paese a un altro. In Iran, in carcere si vivono condizioni molto dure, torture psicologiche e fisiche.

Un’esperienza molto forte, porta ansia, depressione e un senso di sfiducia nel sistema e nella società. Il sistema giudiziario del regime costringe le persone a confessare sotto tortura, a volte accusandole falsamente di essere spie di Israele e degli Usa, e le condanne possono arrivare alla pena di morte, per crimini che non commessi.

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Queste condizioni riguardano i prigionieri politici iraniani e soprattutto le minoranze, mentre questo non accade a un cittadino straniero. 

Ha poi vissuto dieci mesi da reclusa in Italia.

Non mi aspettavo che in Italia si cercasse un trafficante su una barca di rifugiati. Le condizioni non erano dure come in Iran, ma la sensazione di umiliazione era tanta. Sapevo con certezza di non avere alcuna ambasciata che mi aiutasse. Mi sentivo molto sola, perché anche la mia terra è prigioniera, come me. A chi avrei dovuto chiedere aiuto?

Non mi sentivo tutelata dalla legge: non ho potuto comunicare con i miei familiari per 77 giorni, né avere un traduttore per un mese. Le richieste di aiuto durante gli scioperi della fame, per cui ho perso 17 chili, sono state ignorate. Tutto questo ha avuto un impatto psicologico importante.

Anche nei paesi democratici si può subire un’ingiustizia, ma è lo stato di diritto che può garantire giustizia. Questo in Iran non accade. Ho capito sempre di più il valore della libertà e dei diritti umani. E voglio essere la voce delle persone e delle vite che hanno subito oppressione.

Cosa rappresenta il carcere di Evin per gli iraniani?

È uno dei penitenziari più famosi e controversi dell’Iran, il simbolo della repressione politica e della dittatura. Dalla rivoluzione islamica del 1979, questa prigione è stata un luogo di detenzione per molti oppositori del regime, militanti per i diritti umani, giornalisti e avvocati. Due attiviste curde, detenute a Evin, Verisheh Moradi e Pakhshan Azizi, sono state condannate a morte di recente.

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Cecilia Sala è in isolamento in quel carcere in condizioni difficili. Quali strumenti usa il regime?

I prigionieri a Evin, soprattutto se arrestati per motivi politici, vivono condizioni molto dure. L’isolamento totale, l’accesso limitato alla difesa, alle visite e le cattive condizioni di sonno e di assistenza sanitaria sono strumenti che il regime usa per spezzare lo spirito dei prigionieri e infliggere pressioni psicologiche e fisiche.

L’impatto di queste condizioni non si limita solo ai detenuti, può condizionare la società tutta. Contribuiscono a creare un clima di paura e sfiducia, a generare tra gli attivisti e i giornalisti un senso di insicurezza.

In Iran si parla della detenzione di Sala?

Le notizie sul suo arresto sono limitate e diffuse su fonti esterne. Sui media statali iraniani non si trova alcuna notizia precisa, perché controllati dal governo. Di solito le informazioni riguardanti arresti internazionali vengono censurate. Ma i difensori dei diritti umani stanno lottando per la liberazione di Sala e degli altri prigionieri politici.

Perché il regime autorizza i giornalisti stranieri a entrare nel paese e raccontare?

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Il regime di solito consente l’ingresso di giornalisti stranieri per avere un controllo sulla narrazione del paese. Non c’è libertà di espressione e di stampa in Iran, nemmeno per i giornalisti stranieri e internazionali.

D’altro canto, la presenza di cronisti stranieri dà legittimità internazionale al regime, che ha l’obiettivo di far credere di essere un paese trasparente e una superpotenza in Medio Oriente. Ma la realtà è diversa, c’è una nuova generazione in lotta contro il regime dittatoriale.

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