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La modernità con le rivoluzioni (da quella francese a quella bolscevica) ha cercato la liberazione del soggetto. Ma ciò che ne è scaturito è stato catturato dal capitalismo. Finché libertà ed eguaglianza sono rimaste ancorate al collettivo, cioè finché hanno cercato di produrre una nuova forma di vincolo solidale, una messa in forma della libertà è stata possibile. Ciò è accaduto con difficoltà, perché la fratellanza è sempre stata il valore della triade rivoluzionaria più problematico da garantire nella società emancipata dall’auctoritas. Ma fintanto che la politica non è stata neutralizzata dalla tecnica, era ancora possibile un orizzonte di emancipazione collettiva, pur tra insidie e rischi, nichilistici da un lato, assolutistici dall’altro. La politica moderna ha infatti oscillato tra perdita di senso comunitario e ricerca violenta di purezza solidale, replicando la dialettica tra istituzione ed eresia propria della teologia politica sostanziale, cioè della religione come vincolo politico: la politica “religiosa” ha sostituito la teologia come fondazione dell’ordine. Così il potere costituente si è risolto, nei suoi esiti più radicali, o nella “furia del dileguare”, che distrugge ogni ordine, o in un nuovo potere “totale”, che satura l’intero spazio pubblico. Nella società di massa del Novecento tale paradosso si è dispiegato. Solo con il “trentennio glorioso”, a precise condizioni, è stato possibile lo spazio di una nuova mediazione, emancipativa e non distruttiva. Ma il successo di tale mediazione ha prodotto attese che hanno messo in pericolo gli assetti del potere capitalistico dell’Occidente angloamericano, che ha reagito imponendo una svolta regressiva in grado di liberarlo dai vincoli costituzionali e dai compromessi keynesiani dello Stato sociale delle masse. Con il neoliberismo e il globalismo la forma democratica è rimasta, ma è stata svuotata dall’interno. Ne è seguita la stagione del disincanto estremo, in cui è dato credere solo nel nulla (rivestito di moralismo). Era un destino, o è stato l’opzione revanscista di un nuovo totalitarismo mercatista e consumista, apparentemente soft, post-totalitario, ma compiutamente nichilistico? Stiamo rimpiangendo qualcosa di non più riattingibile, o che addirittura era impossibile da difendere e mantenere? Le istanze di rideterminazione spaziale e politica, il tentativo di rilancio di nuove ragioni per credere (nella politica statuale), sono illusioni? La Fionda è solo nostalgia? Dei determinismi dobbiamo diffidare. Ma il problema è più profondo di questioni e ricette economiche. È antropologico, e in definitiva religioso-culturale. La modernità matura, sfociata nella forma di vita neoliberale (o soppiantata da essa, espunta la promessa della religione politica degli oppressi, sconfitto l’esperimento teologico-politico dissimulato del bolscevismo), è stata catturata da una mistificazione della libertà che appiattisce e omologa. La decadenza della cultura di massa ne è evidente spia. Questo è il paradosso della sinistra, del progressismo: se rivendica il passato, non è credibile (anche perché ha contribuito a demolirlo, almeno da una certa fase, separandosi dalla sua base popolare), se aderisce al novum, si consegna al postumano. Allora forse il problema è stato proprio l’abbandono della Tradizione. Il cattolicesimo antimodernista, pur in sé retrivo, indifendibile, aveva paradossalmente le sue ragioni? Forse per questo Benedetto XVI, che in fondo si proponeva un recupero mite di alcuni ancoraggi tradizionali, pur all’interno del Moderno (un’ermeneutica della riforma nella continuità che non intacca il Glauben, il deposito della fede, contro l’ermeneutica della discontinuità assoluta), non poteva essere tollerato. E infatti non ha retto. Sbaglia chi crede che si tratti di questioni semplicemente “religiose”, tutte interne al cristianesimo. E questo non solo perché le nostre società su di esso poggiano (o meglio poggiavano), ma perché quell’opposizione tra Glauben e nichilismo si replica, confermando il paradigma della secolarizzazione, anche nel rapporto “laico” tra cultura di massa e politica democratica. O la contraddizione tra politica come “quistione religiosa” e libertà individuale si tiene insieme dialetticamente (come era in Hegel e in fondo ancora in Gramsci, pur tra ambivalenze) oppure la polarizzazione si fa inconciliabile. Non a caso, lo scontro che ci viene prospettato, cinicamente, è tra libertà (anche al prezzo di accettare nichilismo e transumanesimo) e tradizionalismo (cioè il ritorno a un uso politico comunitarista della fede quale simulacro d’identità). Il lato tragicamente ironico di tale aporia che appare senza sbocco è che in entrambi i casi si perdono tanto la libertà quanto la verità.
Ma in cosa si può tornare a credere? Questa è la vera domanda. Dubito che possa essere solo in una politica come simulacro. Prima bisogna che rinasca un’autentica Fides. Solo sulla base di questa sarà possibile tornare a praticare – e prima ancora a pensare, a sentire – ragioni e simboli che abbiano un senso politico autentico.
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