Negli ultimi giorni del 2024, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del delicato tema della legittimità o meno del rifiuto da parte di un lavoratore dipendente di un’azienda di svolgere l’incarico di RSPP interno propostogli – o meglio attribuitogli – dal datore di lavoro.
Va detto che la Suprema Corte si è era già occupata in passato di questo tema con una storica pronuncia ( Cassazione Civile, Sez.Lav., 15 settembre 2006 n.19965, di cui si dirà oltre nel dettaglio).
Ma prima di richiamare alla memoria tale importante precedente giurisprudenziale, analizziamo anzitutto il caso trattato in questa recente pronuncia ( Cassazione Civile, Sez.Lav., 27 dicembre 2024 n.34553), partendo dalla contestazione della Società al dipendente.
Con una nota del 2019, nello specifico, la S. S.p.a. aveva contestato al dipendente Ing. A., assunto otto anni prima, il seguente addebito: “Egr. ing. A., riceviamo sua missiva, a seguito della ns. lettera del …2019 che la sollevava dall’incarico di tecnico di cantiere, per la scuola …, unico compito fuori sede affidatole, dove Ella ribadisce la volontà di recedere dall’incarico di RSPP, questa volta, però, con diversa motivazione: PER LA MANIFESTA INCOMPATIBILITA’ CON LO STESSO DATORE DI LAVORO, mentre, in un primo momento, cioè in data …2019, imputava tale rinuncia alla inconciliabilità con altre mansioni affidategli.”
La Società faceva presente ad A. “la gravità di tale affermazione”, la quale aveva determinato “un profondo solco nel rapporto fiduciario che sempre deve esistere tra datore di lavoro e lavoratore con la conseguente necessità di immediato chiarimento al fine di esercitare le concludenti azioni tese a risolvere la problematica di cui soffre il dipendente nei confronti del Datore di lavoro e ciò per rendere, se possibile, il rapporto di lavoro proficuo, ovvero recedere dallo stesso, evitando inutili defatiganti ed improduttive stasi […]”.
Di conseguenza la Società, “nel contestare tale grave mancanza nei confronti del datore di lavoro, (ritenuto dal lavoratore MANIFESTAMENTE incompatibile con sé stesso dipendente); 2. nel contestare le gravi intemperanze verbali, manifestate in ufficio, nei confronti di alcuni suoi colleghi in data …2019, Ingg. B. e C.; 3 nel contestare l’arbitrio dell’assenza ingiustificata dal posto di lavoro in data …2019”, concedeva 5 giorni ad A. “per fornire le proprie considerazioni e/o giustificazioni in ordine ai fatti contestati”.
La S. S.p.a. comunicava al dipendente, poi, che “il datore di lavoro, inoltre, prende atto della sua rinuncia al ruolo di RSPP (…)”.
Dunque, “all’esito delle giustificazioni, la società intimava, in data …2019, licenziamento per giusta causa, ai sensi e per gli effetti dell’art.2119 cc, con effetto immediato e senza preavviso, per i fatti oggetto della contestazione.”
L’Ing. A. ha impugnato il recesso e il Tribunale di Nola, con un’ordinanza del 2020, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento e ha ordinato alla S. S.p.a. di reintegrare A. nel posto di lavoro e di pagargli le retribuzioni dal licenziamento alla reintegra.
Lo stesso Tribunale di Nola ha altresì rigettato anche l’opposizione ex lege n.92 del 2012 presentata dalla S. S.p.a.
Diverso è stato però l’esito in appello.
La Corte d’appello di Napoli, infatti, con sentenza del 2022, ha riformato la pronuncia del Tribunale di Nola e rigettato l’originaria impugnativa del licenziamento, rilevando che: “a) non era condivisibile l’assunto del primo giudice secondo cui lo A. sarebbe stato licenziato non perché si era rifiutato di adempiere ad una prestazione richiesta dal datore di lavoro, ma per un sorta di permalosità di quest’ultimo con il quale il dipendente si era dichiarato incompatibile; b) dall’analisi della contestazione si desumeva che lo stesso aveva ad oggetto non una frase irriverente in sé, bensì il rifiuto ad adempiere ad una disposizione aziendale e, quindi, una grave insubordinazione; c) in tale contesto era del tutto irrilevante l’eventuale mancata affissione del codice disciplinare; d) non vi era alcuna discrasia tra contestazione e licenziamento essendo quest’ultimo stato esplicitato in relazione alla fattispecie della insubordinazione; e) il recesso, disposto ad un mese dai fatti e dopo una contestazione immediata, era da considerarsi tempestivo.”
L’Ing. A ha proposto ricorso in Cassazione.
Con il primo dei tre motivi di ricorso presentati di fronte alla Suprema Corte, il ricorrente “denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art.16 co.1 lett.e) del D.Lgs. n.81/2008, nonché degli artt.2106 e 2119 cc e degli artt.1 e 3 legge n.604/66, il tutto in elazione all’art.360 co.1 n.3 cpc, per avere la Corte territoriale, erroneamente, da un lato ritenuto che la rinuncia all’incarico di RSPP integrasse una insubordinazione tanto grave da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, in quanto si trattava di una delega del datore di lavoro la cui accettazione non era obbligatoria e, dall’altro, per avere qualificato come irriguardosa e insubordinata la ragione posta a base della rinuncia (“manifesta incompatibilità con lo stesso datore di lavoro”).”
Inutile dire che, in questa argomentazione difensiva, la nomina dell’ RSPP da parte del datore di lavoro ai sensi dell’art.17 D.Lgs.81/08 è stata impropriamente ed erroneamente collegata e sovrapposta alla delega di funzioni ai sensi dell’art.16 D.Lgs.81/08, pur trattandosi di due istituti giuridici completamente diversi: il primo finalizzato a istituire un ruolo avente natura consulenziale (l’RSPP) e l’altro teso a trasferire a titolo derivativo ad un altro soggetto (il delegato) obblighi – e quindi poteri – gravanti a titolo originario sul datore di lavoro.
La Cassazione ha rigettato il ricorso.
Con particolare riferimento al primo motivo di ricorso (su riportato), la Corte ha ritenuto che fosse “infondato relativamente alle tematiche in diritto concernenti l’art.16 del D.Lgs. n.81/2008.”
La Cassazione cita in proposito “la giurisprudenza di legittimità, consolidatasi in materia penale”, la quale “ha infatti specificato che la mera designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione non costituisce una delega di funzioni e non è dunque sufficiente a sollevare il datore di lavoro ed i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (Cass.pen. Sez.4 n.24958/2017).
Invero, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, gli obblighi di vigilanza e di controllo gravanti sul datore di lavoro, non vengono meno con la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il quale ha una funzione di ausilio diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro nell’individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione e di formazione dei dipendenti (Cass.pen. Sez.4 n.50605/2013).”
Peraltro – sottolinea la Corte – “nel caso de quo non risulta assolutamente il conferimento dell’incarico allo A. attraverso una delega formale, bensì soltanto a mezzo di una designazione endo-aziendale ad un dipendente della società, peraltro dopo averlo sollevato da altre mansioni, il quale si è rifiutato comunque di assolverlo.”
Dunque, “la dedotta violazione dell’art.16 D.Lgs.n.81/2008, per la asserita insussistenza di un obbligo ad accettare la delega, non è, pertanto, configurabile perché la relativa problematica non è conferente al caso in esame.”
Con riferimento agli altri motivi di ricorso (che qui non riportiamo per brevità ma che comunque si deducono dalle seguenti affermazioni della Corte), la Cassazione precisa che “questo Collegio ritiene corretta la statuizione della impugnata sentenza, che ha ritenuto grave la forma di insubordinazione addebitata in quanto certamente idonea a ledere il rapporto di fiducia che deve sussistere tra le parti, perché effettivamente il rifiuto del dipendente ad assumere l’incarico conferitogli, dopo che vi era stato una precedente opposizione per la dedotta inconciliabilità con altre mansioni affidategli, risolta dall’azienda, è assolutamente generico ed immotivato (“manifesta incompatibilità con lo stesso datore di lavoro”) non consentendo, quindi, un controllo sulla legittimità del comportamento del lavoratore e delle effettive ragioni del rifiuto.”
Per la Cassazione Civile, “il rifiuto di adempiere alla propria prestazione, ex art.1460 cod. civ., infatti, può essere giustificato solo se l’altra parte sia totalmente inadempiente ma, per operare tale valutazione, occorre una chiara e precisa esplicitazione dell’intera situazione, in ordine al rifiuto stesso, che non è certamente ravvisabile nella mera locuzione “manifesta incompatibilità con lo stesso datore di lavoro”.”
In conclusione, “alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.”
Traiamo dunque da questa sentenza qualche indicazione utile a ricostruire i principi che si applicano in caso di rifiuto di un dipendente a svolgere la funzione di RSPP (o, per estensione, di ASPP) in azienda.
La prima considerazione da fare è che la norma che si applica in questo caso è l’art.1460 del codice civile (“Eccezione d’inadempimento”), che prevede che “nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto.
Tuttavia non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede”.
Nel caso di specie, secondo la Corte, non vi è stata da parte del ricorrente “una chiara e precisa esplicitazione dell’intera situazione”, in quanto il rifiuto dell’Ing. A è stato “generico” e “immotivato” (non rappresentando la “manifesta incompatibilità con lo stesso datore di lavoro” una motivazione chiara e specifica).
Tra l’altro, proprio la natura di questa motivazione addotta e la sua genericità hanno condotto i Giudici alla qualificazione della condotta del ricorrente come “grave forma di insubordinazione” in quanto “certamente idonea a ledere il rapporto di fiducia che deve sussistere tra le parti”.
Ciò detto, un elemento vorrei però qui sottolineare e valorizzare: ovvero il fatto che la Cassazione sottolinea a più riprese – quale fattore evidentemente rilevante – il fatto che l’A. fosse stato sollevato dal datore di lavoro da altre mansioni.
Tali aperture da parte della Cassazione lasciano infatti intendere che qualora ad A. fossero state affidate anche altre mansioni contemporaneamente (circostanza non sussistente nel caso di specie), ciò sarebbe stato tenuto in considerazione ai fini della valutazione di cui all’art.1460 c.c. riportato sopra: per approfondimenti su questo tema, rinvio al mio articolo dell’anno scorso “Il tempo di cui l’RSPP deve disporre per poter svolgere i suoi compiti” pubblicato su Puntosicuro del 13 giugno 2024 n.5640).
Peraltro, proprio in questa direzione (seppure in termini di incompatibilità di funzioni) si è mosso l’importante precedente giurisprudenziale richiamato all’inizio di questo contributo.
Con Cassazione Civile, Sez. Lav., 15 settembre 2006 n.19965, la Suprema Corte era stata infatti a suo tempo chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento di un lavoratore che si era rifiutato di svolgere la funzione di RSPP, affidatagli dal datore di lavoro, adducendo il fatto che tale mansione era incompatibile con il ruolo di RLS di cui egli era stato investito da parte dei lavoratori ai sensi dell’allora art.18 D.Lgs. 626/94 (ora art.47 D.Lgs.81/08).
Il pronunciamento della Cassazione sulla incompatibilità tra la funzione di RSPP e quella di RLS ha determinato, nella fattispecie oggetto del giudizio, la legittimità del rifiuto (“giustificato”) opposto dal lavoratore e quindi l’invalidità del licenziamento intimato dal datore di lavoro.
Il principio giuridico che emergeva dalla interessante sentenza in oggetto è ben riassunto nella massima secondo cui “nel sistema delineato dal decreto legislativo 19 settembre 1994 n.626, la funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, designato dal datore di lavoro (art.2, lett.e), e quella di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art.2, lett.f) non sono cumulabili nella stessa persona”.
Tale principio giurisprudenziale è così, due anni dopo e cioè nel 2008, evidentemente confluito nella previsione introdotta dal Testo Unico di salute e sicurezza secondo cui “l’esercizio delle funzioni di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è incompatibile con la nomina di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione” (art.50 c.7 D.Lgs.81/08).
Tornando poi agli effetti giuridici della incompatibilità tra la funzione di RSPP e quella di RLS, la Cassazione ha sottolineato che i giudici di appello “ritenevano che il datore di lavoro non potesse far venir meno la designazione operata dai lavoratori imponendo al proprio dipendente di accettare una mansione incompatibile con quella di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”; dunque nel comportamento del datore di lavoro teso ad imporre al lavoratore-RLS l’accettazione dell’incarico di RSPP viene ravvisata una condotta illegittima tale da far qualificare come “giustificato” il rifiuto opposto dal lavoratore.”
Infine, “l’imposizione di una mansione incompatibile con quella di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza può essere infatti a pieno titolo ritenuta un’interferenza rispetto alla volontà dei lavoratori espressa all’atto della designazione/elezione dell’RLS ai sensi dell’art.18 del D.Lgs.626/94 ed è ai limiti della condotta antisindacale prevista dall’art.28 dello Statuto dei Lavoratori”.
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
Corte di Cassazione Civile, Sez. lavoro – Sentenza n. 19965 del 15 settembre 2006 – Mobbing
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