La legge e noi: il «successo sostenibile», nuove sfide per l’impresa

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Il Codice di Corporate Governance delle società quotate italiane addita quale obbiettivo dell’azione degli amministratori il «successo sostenibile» dell’impresa: e lo individua nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società.
La formula incrocia i temi attuali della sostenibilità, inducendo a chiederci: qual è oggi il fine (legittimo) dell’impresa?
Obbiettivi di sostenibilità – ambientale, sociale, economica – innervano il dibattito pubblico, l’azione dei governi nazionali e delle organizzazioni politiche sovranazionali, degli operatori economici e dei privati cittadini.

Restando alle imprese e alle società maggiori, a seguito di una recente direttiva europea (2022/2464) è stato introdotto in Italia un obbligo di rendicontazione non finanziaria, per la comprensione dell’impatto dell’impresa sulle questioni di sostenibilità, nonché del modo in cui esse influiscono sull’andamento e i risultati dell’impresa. Una ulteriore direttiva (2024/1760) impone poi alle società, sempre di maggiori dimensioni, di adottare misure adeguate al fine di prevenire, arrestare o minimizzare e, ove prodotti, riparare gli impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente causati dalle proprie attività, nonché per dialogare con gli stakeholder, adottando piani di transizione per la mitigazione dei cambiamenti climatici, un’economia sostenibile e la limitazione del riscaldamento globale.

Su un piano generale, è divenuta oggetto di tutela costituzionale in Italia la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi (art. 9). E, venendo alle imprese, è ora stabilito che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in modo da recare danno, oltre che ai classici valori della sicurezza, libertà e dignità umana, anche all’ambiente (art. 41).
Ancora, tutti gli imprenditori, secondo il nuovo codice italiano della crisi di impresa e dell’insolvenza, devono adottare misure e assetti adeguati al fine di verificare la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi e rilevare i segnali di crisi imminente.

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Si assiste così ad una interrelazione di sostenibilità finanziaria, sociale e ambientale, che aiuta a comprendere il significato della formula da cui siamo partiti, quella del “successo sostenibile”. Non si tratta di un mutamento epocale della natura dell’impresa, chiamata ad assumere uno scopo sociale o altruistico, diverso da quello economico classicamente inteso, anche quando non si tratti di imprese onlus o del terzo settore.

Nello scenario normativo e culturale attuale, piuttosto, i gestori dell’impresa non possono accontentarsi di perseguire la creazione purchessia di valore per i soci, in termini di utili o valore dell’investimento; ma devono preoccuparsi di generare tale valore nel lungo termine, senza rischi superiori a quelli sopportabili dalla struttura finanziaria dell’impresa, e tenendo in considerazione terzi investitori, finanziatori, creditori, lavoratori e tutti coloro cui viene richiesto di dare fiducia all’impresa; così come gli stakeholder a più ampio raggio coinvolti dall’azione dell’impresa, a partire dagli interessi – dei cittadini, degli utenti, delle comunità sociali – afferenti alla sfera della sostenibilità ambientale e sociale.

L’assunzione di responsabilità in chiave di sostenibilità finanziaria, sociale e ambientale, non fa dell’impresa altro da sé; certo le chiede di interpretare un nuovo modo di essere se stessa. Si tratta di coniugare gli interessi economici dell’impresa con la considerazione degli interessi esterni riconducibili alla sostenibilità; senza che tali interessi divengano interni all’agire imprenditoriale, giacendo piuttosto la loro considerazione sul piano delle condizioni per il legittimo esercizio d’impresa, anziché su quello dei suoi fini.

In quanto sostenibile, sul piano finanziario, ambientale e sociale, il valore di impresa può per questa via rendersi più stabile, sfuggendo ai contraccolpi di squilibri finanziari o ferite all’ambiente e ai diritti umani; con l’esito di migliori condizioni di esercizio per l’impresa e più proficue occasioni per l’attuazione dei suoi tipici scopi economici.

Vanno distinte da ciò forme di stakeholderism strumentale, ove la considerazione di interessi altri sia attuata al solo fine di guadagnare accesso a capitali o risorse, condizionato all’esibizione di meriti dell’impresa nella salvaguardia dell’ambiente e di istanze sociali. Così come forme di capitalismo woke, disponibile magari ad atti radicali in senso sociale (ad es., parità di genere nelle funzioni apicali di impresa) ma non in senso economico (parità di retribuzione).

È poi incombente il rischio di greenwashing, in cui la tutela di valori ambientali e sociali è oggetto di azioni di facciata, salvo magari dislocare in meno vigilati contesti geografici e giuspolitici azioni lesive dell’ambiente e dei diritti umani. Il successo sostenibile è oggi sfida per un sano modello di crescita dell’impresa. Ed è auspicabile vi concorra la creazione all’interno dell’impresa – a partire dai consigli di amministrazione e dai comitati endoconsiliari – di luoghi di dialogo tra gestori e stakeholder, promuovendo forme di democrazia economica che valgano alla ricerca costante di prosperità e benessere condivisi.



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