Quando parte la musica, irrompe la sua voce furibonda: «Non c’è pace sulla terra rubata/Lotta per esistere/Non ci tiriamo indietro/Finché siamo occupati/La resistenza è giustificata». Sul palco, piccolissimo, quasi del tutto occupato dal resto della band, dalla batteria e dagli amplificatori, si muove come un animale in gabbia al ritmo di un Harami Punk hardcore che martella forte nelle tempie. Al microfono urla in lingua araba quel che brucia i suoi nervi: «Un mondo consumato dal male e dall’avidità/Fa del suo meglio per tenermi in ginocchio/Demolisce le nostre case/Per riempirsi le tasche» mentre il pubblico, giù di sotto, balla, poga e scandisce ogni strofa scuotendo la testa.
Gli Ikhras
Hassan è un giovane musicista e attivista palestinese che vive a Londra. È uno dei tantissimi figli della diaspora in Gran Bretagna, uno delle parecchie decine di migliaia che vivono sulla propria pelle il trauma intergenerazionale della Nakba e la censura delle loro voci.
Con la sua band di quattro elementi chiamata Ikhras (parola araba che significa, più o meno, “stai zitto, ****!”), Hassan è uno degli esponenti più interessanti di un genere musicale che unisce hardcore punk, identità musulmana e critica al potere: l’Harami Punk.
Il gruppo ha debuttato a febbraio con l’EP Jahanam Btistana, “L’inferno aspetta”, nei cui brani, in parte cantati in arabo e in parte in inglese, denuncia l’occupazione dei territori, la violenza dei coloni, il trauma vissuto da generazioni di palestinesi, la crescente islamofobia e l’intolleranza religiosa; nei mesi seguenti ha inoltre partecipato a diverse iniziative in favore dei civili palestinesi vittime della guerra, tra le quali un paio di compilations punk a sostegno delle charities che operano sulla Striscia di Gaza (Medical Aid for Palestinians e Middle East Children’s Alliance) e il concerto organizzato dagli artisti metal che avevano boicottato il più celebre Download festival perché sponsorizzato da Barclays.
Le band israeliane
Per inciso, la guerra in Medioriente ha riportato alla ribalta anche altre voci. Sono quelle delle arrabbiatissime hardcore bands israeliane che da anni gridano, in ebraico e in inglese, il loro sdegno per le violazioni dei diritti umani a Gaza e Cisgiordania da parte del governo del proprio Paese. Molte sostengono il movimento di pace e giustizia sociale Standing Together e insieme ad altre punk gangs, qualcuna persino messa al bando da promoters e fan nazionalisti perché vicini alle istanze del popolo palestinese – nei mesi scorsi hanno pubblicato The Black List, “La Lista Nera”, una compilation benefica che supporta quelle organizzazioni non governative che a Gaza stanno affrontando la grave crisi alimentare e umanitaria.
Il documentario
Ma torniamo all’Islam e a ciò che ne sta ora mettendo in discussione l’autorità: la sua scena punk. «L’Harami punk è un genere che discende dal Taqwacore», spiega a Domani la giornalista e videomaker di origini marocchine Hajar Ouahbi, autrice di un interessante documentario da poco disponibile sul canale culturale europeo Arte.tv dal titolo Muslim Punks. «È un punk proibito che non gioca provocatoriamente con gli stereotipi musulmani come accade, invece, con il Taqwacore, ma punta a rafforzare l’identità musulmana in un modo più concreto». Per la cronaca, Taqwacore è un termine inventato all’inizio del Duemila da uno scrittore americano convertito all’islamismo, Michael Muhammad Knight, che ibrida Taqwa, “timore di Dio” e hardcore.
Le origini
Se le radici del punk islamico europeo hanno cominciato a spuntare molto tempo fa, tra la fine degli anni Settanta e Ottanta a Londra, con formazioni come gli Alien Kulture che rispondevano con la musica e la politica alla violenza dell’estrema destra e ai piani per l’immigrazione del governo Thatcher, l’Harami Punk si è sviluppato nella scia tracciata nel nuovo Millennio dalla band libanese-newyorchese Haram, la prima a cantare quasi esclusivamente in arabo l’islamofobia che permeava la società statunitense. Il suo leader, Nader, dopo essere finito nel mirino di Fbi e NYPD in seguito degli attentati dell’11 settembre 2001, ha messo in musica la sua esperienza di «sospettato di appartenenza allo Stato Islamico» nel terzo EP Where Were You on 9/11? (“Dov’eri l’11 settembre?”).
Le lingue
Nella Sharia l’aggettivo “Haram” comprende tutto ciò che è «inviolabile, proibito» da Allah: la stessa musica rock o punk o metal lo è, ed è proprio con la musica che molte bands musulmane hanno scelto di gridare il loro furente «no» a chi li vorrebbe in silenzio, o espulsi. E lo fanno nella lingua madre: in arabo, come gli Ikhras o i giordano-palestinesi americani Inqirad; in darjia, il dialetto parlato in Marocco, come i Taqbir; in sundanese, la lingua parlata dalle Voice of Baceprot, trio metal all girls che la scorsa estate si è esibito al Festival di Glastonbury. Oppure, ancora, lo fanno in hurdu, panjabi e farsi, come nel caso dei pachistano-iraniani-tedeschi Zanjeer, di Berlino, i cui testi affrontano i temi del colonialismo, della devastazione ambientale e attaccano coraggiosamente il fondamentalismo religioso e la ferocia dei Talibani. «Ti definisci un musulmano? Io dico che sei un terrorista. Morte ai Talebani», ringhia il suo corpulento frontman, Hasan, in Taliban Murdabad (Morte ai Talebani).
Zoufriya
E proprio gli Zanjeer e gli Ikhras sono due dei protagonisti del documentario di Arte: ad affiancarli c’è anche l’artista multimediale Zoufriya, rapper trap e poetessa franco-marocchina che nelle sue performances utilizza il velo nero in tutte le sue declinazioni – Hijab, Jilbab, burkini, Abaya e Burka afgano, indossato, però, con scarpe tacco 12 – per incarnare quello che la stessa artista definisce «il demone che la società francese identifica nelle donne arabe velate», per sovvertire gli stereotipi e combattere le oppressioni.
«L’idea di Muslim Punks è nata dopo aver visto il film Taqwacore di Omar Majeed e la serie tv We are Lady Pants di Nilda Manzoor», ci racconta Hajar Ouahbi, vincitrice nel 2021 di un premio dell’Unesco Center of Peace con un video-reportage sociale girato tra Turchia ed Egitto: «Essendo io musulmana e amando le scene alternative e le subculture, ho successivamente incontrato molte Muslim Punk bands e, a quel punto, ho deciso di esplorarle più profondamente e raccontare le loro storie in un documentario».
Il messaggio
Ma che cos’è davvero il Muslim Punk? «È un modo con cui i musulmani esprimono loro stessi ma è anche uno strumento, per molti della diaspora e no, con cui portare avanti la propria critica all’Occidente e, contemporaneamente, alle questioni che riguardano i Paesi d’origine; il punk li aiuta ad articolare prospettive complesse e spesso silenziate».
Poiché le tensioni tra Occidente e Islam sono antiche e multiformi, l’autrice del documentario è perciò convinta che limitare il fenomeno Muslim Punk a un mero prodotto di influenze occidentali, significa perdere di vista il robusto contributo che band lontanissime da questa parte di mondo, come quelle indonesiane, malesi e altre, hanno invece dato. Non si può infatti ignorare, continua Ouahbi, «che i Paesi a maggioranza musulmana stanno portando avanti un dibattito interno molto intenso intorno all’Islam» e che la musica ne è uno specchio: «La copertina dell’ultimo EP dei Taqbir, per esempio, che raffigura la Mecca mentre viene distrutta da una palla di cannone, rappresenta una critica fortissima al capitalismo islamico collegato all’Arabia Saudita».
Essere musulmani, fare musica punk e denunciare fondamentalismi, terrorismi, misoginia, diritti negati nelle terre madri e in quelle dove, per varie ragioni, ci si è spostati, è però ancora difficile. «Molti artisti possono sentirsi costretti ad ammorbidire i loro messaggi politici per poter raggiungere un pubblico più vasto; altri, come certi gruppi indonesiani, sono riusciti ad ottenere un buon seguito senza scendere a compromessi. Per le Muslim Punk band femminili questi ostacoli sono, ovviamente, ancora più grandi e dolorosi», conclude l’autrice: «Le donne subiscono infatti brutali stigmatizzazioni e non è raro che vengano isolate dalle loro comunità».
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