Perché il Parlamento non elegge i giudici della Corte Costituzionale: tutti pronti alla spartizione

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Sono già dodici gli scrutini andati a vuoto in parlamento nel tentativo di ripristinare il plenum della Consulta, oramai ridotto al minimo legale di 11 giudici (su 15). Un ritardo coltivato
fino a cumulare il numero di giudici da eleggere simultaneamente, così da preparare una spartizione tra le forze politiche, in spregio ai principi costituzionali

1. Il contributo delle Corti costituzionali a garanzia delle democrazie era il tema del seminario promosso dalla rivista Quaderni Costituzionali e dal suo editore il Mulino, l’11 dicembre scorso. A livello comparato, è emersa l’irresistibile tentazione del potere politico di “catturare” le Corti supreme nazionali per neutralizzarne la funzione contro-maggioritaria. È una tentazione globale e trasversale. Nell’ultimo biennio, ha interessato non solo democrazie illiberali (Ungheria, Polonia) o incerte (Ecuador, Messico), ma anche stabilizzate (Francia, Regno Unito, Spagna, Israele, USA). E l’elenco può includere altri paesi (Romania, Sud Corea), visti gli eventi delle ultime settimane.

È una tentazione tentacolare che procede erodendo progressivamente le forme di tutela dell’autonomia e indipendenza delle Corti. Le modalità sono varie (nomine pilotate, riforme mirate, giudicati disattesi, poteri amputati), accomunate dalla sinistra caratteristica di rivelarsi solo ex post come una complessiva strategia capace di determinare una regressione democratica. Vale anche per l’Italia?

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2. La risposta dipenderà dall’esito di una partita parlamentare che si trascina irrisolta dall’11 novembre 2023 (data di fine mandato di Silvana Sciarra). Sono già dodici gli scrutini andati a vuoto nel tentativo di ripristinare il plenum della Corte costituzionale, oramai ridotto al minimo legale di 11 giudici (su 15): se un impedimento qualsiasi colpisse uno di loro, assisteremmo all’inedita paralisi di un organo costituzionale indefettibile. Ha ragione chi, in dottrina, ha parlato di un ritardo «intenzionale» (Ugo Adamo, La composizione ordinaria della Corte costituzionale, Editoriale Scientifica, 2024, 201), coltivato fino a cumulare il numero di giudici da eleggere simultaneamente, diventati nel frattempo 4 al termine dei mandati di Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti, il 21 dicembre scorso.

Il succedersi delle ultime tre votazioni, infatti, ha avuto il solo scopo di allineare al ribasso i quorum richiesti in Costituzione per eleggerne i sostituti, come prevede la legge: dai 2/3 ai 3/5 dei membri del Parlamento in seduta comune. Meno voti necessari, più posti disponibili. Questo lo scenario perseguito dai partiti e ottenuto telecomandando deputati e senatori che, proni e zelanti, hanno abdicato a una loro prerogativa costituzionale: concorrere sostanzialmente – e non solo pro forma – alla composizione della più alta istituzione di garanzia dell’ordinamento costituzionale. Racconta molto di sé un Parlamento che, senza reagire, si lascia sfilare l’ennesima competenza, contribuendo così alla propria irrilevanza politica.

3. Questo intenzionale ritardo rappresenta un «vulnus costituzionale», stigmatizzato come tale dal Quirinale: era il 24 luglio scorso, e allora il giudice mancante era soltanto uno. Sull’altare di esigenze spartitorie, infatti, viene sacrificata la collegialità della Corte costituzionale, amputata quasi integralmente della sua componente di estrazione parlamentare. La si costringe a lavorare a ranghi ora ridottissimi, pericolosamente prossimi allo stallo funzionale. Se ne riduce la capacità di rendere giustizia costituzionale, alimentando il rischio di un rinnovato arretrato di questioni pendenti e ricorsi inevasi.

Decisioni indifferibili (come il giudizio sull’ammissibilità dei referendum, in agenda il 13 gennaio) e urgenti (come l’elezione del nuovo Presidente della Consulta, indetta per il 20 gennaio) rischiano di essere prese da un collegio ridotto all’osso. Sono conseguenze tanto gravi quanto prevedibili che, però, non hanno in nulla scalfito la deliberata volontà politica di arrivare al punto in cui siamo. Analogamente, i ripetuti inviti del Presidente uscente della Corte a “fare presto” sono stati trattati con offensiva sufficienza e sostanziale indifferenza: troppo ghiotta la posta in palio per attenersi a una doverosa, leale collaborazione tra poteri.

Principio, questo, che il Parlamento non ha esitato a capovolgere, tradendolo. Il riferimento è alla tempestività con cui il Presidente Mattarella, il 6 novembre 2023, ha proceduto alle due nomine di sua competenza (i giudici Pitruzzella e Sciarrone Alibrandi). Lo scopo era di spronare le Camere a procedere altrettanto speditamente, ma il risultato è stato d’incrementarne l’inerzia, con l’alibi che il collegio costituzionale veniva così messo sufficientemente in sicurezza. Una strumentalizzazione parlamentare indecorosa.

4. E adesso? Come uscirne? La soluzione che va prefigurandosi è riassunta in una formula matematica: 2+1+1. Indica la spartizione, tra gruppi parlamentari, dei giudici da designare: 2 alla maggioranza, 1 alle opposizioni, 1 condiviso per il suo profilo tecnico. Indipendentemente dai nomi che saranno prescelti, si tratterebbe – né più né meno – di una frode costituzionale. La Costituzione rifiuta la necessità di riservare, all’interno della Consulta, una “quota” di giudici espressione della minoranza parlamentare, perché non intende fare altrettanto – e in numero superiore – a favore della maggioranza parlamentare.

La ragione è semplice: evitare la politicizzazione della giurisdizione costituzionale, sottraendo il collegio a condizionamenti partitici. A questo servono gli alti quorum elettivi: riconoscere un reciproco diritto di veto a impedire designazioni partigiane, costringendo così i parlamentari a convergere su nomi da tutti condivisi per competenza, autorevolezza, biografia. L’imparzialità della carica di giudice costituzionale, infatti, deve apparire tale fin dalla designazione e non solo dopo, alla luce della successiva condotta del prescelto. È l’antitesi della logica spartitoria che, invece, si intende perseguire. Dove due candidature dichiaratamente di parte diventano votabili se compensate da una candidatura eguale e contraria (e viceversa). Dove, già in partenza, si riconosce in un unico candidato il profilo necessario e sufficiente per una designazione bipartisan, con ciò ammettendo – a contrario – la matrice partigiana degli altri tre.

Non basta. Poiché l’accordo è tra forze politiche reciprocamente diffidenti, si procederà secondo modalità di votazione che assicurino l’esito voluto (meglio se con un’unica scheda dove indicare i designati): l’arte combinatoria nell’esprimere le preferenze, concordata preliminarmente, consentirà di verificare se i gruppi parlamentari, obbedienti, si saranno attenuti alle relative consegne. Si aggirerà così la segretezza del voto, mentre la simultaneità dello scrutinio precluderà eventuali veti reciproci: simul stabunt aut simul cadent. La metamorfosi del Parlamento in seduta comune sarà allora completa: da «organo esecutivo della Costituzione» (Gianni Ferrara) a inautonomo collegio chiamato a ratificare quattro nomine decise altrove.

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5. Una simile convenzione, proprio perché in frode alla Costituzione, è insuscettibile di trasformarsi in consuetudine giuridicamente vincolante. Ma è in grado, già ora, di alterare il coerente svolgersi della giurisprudenza costituzionale. Nei lavori della Corte – si è detto – decisivo è il metodo della collegialità: il che indurrebbe a non enfatizzare oltremisura le diverse sensibilità politiche e culturali dei candidati all’ufficio di giudice costituzionale. Ma – come ricordava il suo Presidente Giuseppe Branca – «per cambiare un indirizzo giurisprudenziale, in un collegio di quindici persone, basta il mutamento di due o tre giudici, poiché sulle questioni politicamente importanti si decide con una stretta maggioranza» (in Politica del diritto, 1971, 34).

Anche per questo, lo scenario che si prefigura allarma. Infatti, «il tendenziale rispetto dei propri precedenti» è una delle condizioni essenziali per l’autorevolezza delle decisioni di ogni giurisdizione superiore: il che «vale anche, e forse in speciale misura, per il giudice costituzionale» (sent. n. 203/2024). In Costituzione, condividere non è sinonimo di spartire: è davvero così difficile da capire?



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